Giovedì, 26 Agosto 2021 18:59

Multinazionali: le grinfie sul cibo

In occasione della 76ª Assemblea generale dell’Onu, dal 14 settembre ha luogo a New York il Summit sui Sistemi Alimentari (Unfss). Oltre 550 movimenti sociali e organizzazioni della società civile hanno però deciso di declinare l’invito al Summit e di boicottarne gli eventi paralleli. Fra questi, il movimento contadino La Via Campesina, che conta più di 200 milioni di membri in 81 Paesi, ma anche la Federazione cattolica rurale (Fimarc) e grandi ong come Amnesty International, ActionAid, Friends of the Earth, Fian, Greenpeace e Slow Food. Quali dubbi sollevano attorno a questo vertice?

Nel giugno 2019 viene formalizzata una “partneship strategica” tra l’Onu e il World Economic Forum, l’ente espressione degli interessi delle multinazionali più potenti del Pianeta promotore del Forum di Davos. Movimenti sociali e ong lanciano subito l’allarme perché intravedono proprio in quella partneship strategica «un’ombra sull’integrità delle Nazioni Unite come sistema multilaterale», in quanto «garantisce un sistema di accesso preferenziale nell’Onu per le multinazionali, proprio quando alcune delle principali attività delle compagnie transnazionali hanno causato o peggiorato le crisi mondiali a livello sociale, economico e ambientale».
Il Summit sui Sistemi Alimentari espone anzitutto al rischio di corporate capture: apparati pubblici o statali vengo cooptati dal settore privato interessato a influenzare a proprio beneficio leggi e politiche.

Quale sovranità alimentare?
Nel mese di luglio la convocazione del Summit è stata contestata dalla campagna #NotInOurNames (#NonInNostroNome) perché esso mette a rischio i processi stessi delle Nazioni Unite: «Il vertice non ha ricevuto alcun mandato da un organismo o da un processo intergovernativo esistente, a differenza dei precedenti, ed è frutto di una scelta del segretario generale dell’Onu, António Guterres, in stretto accordo con il mondo corporativo».
Il movimento contadino è stato tra i principali sostenitori del processo di democratizzazione delle Nazioni Unite proprio a partire dal principio della “sovranità alimentare”. Questo termine, coniato in occasione delle mobilitazioni per il Summit sull’Alimentazione del 1996, indica il diritto di tutti i popoli ad autodeterminare le scelte sui propri sistemi alimentari, che devono essere sani, giusti e culturalmente appropriati. È un approccio che parte dal basso, dal livello locale, per contrastare i rischi e le disuguaglianze generate dalla globalizzazione.

Interessi privati...
A seguito della crisi alimentare del 2008, i movimenti sociali hanno ottenuto l’avvio della riforma del Comitato per la sicurezza alimentare mondiale della Fao (Cfs), che, grazie al loro impegno, è diventato la piattaforma più ampia di discussione sull’alimentazione a livello globale. Al suo interno è stato creato il Meccanismo della Società Civile e dei Popoli Indigeni (Csm), uno spazio inclusivo che riunisce ben 11 differenti gruppi sociali, che vanno dai produttori ai consumatori, dalle donne ai poveri urbani. Eppure, «nessuno di questi organi è stato coinvolto nell’organizzazione del vertice – denuncia l’Associazione Rurale Italiana (Ari), rappresentante di La Via Campesina –: l’impressione è che le grandi aziende (corporations) mirino a sostituire l’approccio multilaterale, che tiene conto dell’importanza di produttori e società civile, con un approccio in cui gli interessi del settore privato sono posti allo stesso livello di quelli degli Stati e dei gruppi sociali». Se prevarrà questa logica, gli Stati conteranno sempre meno nel prendere decisioni, e soprattutto diventerà impossibile chiamare le multinazionali a rispondere delle proprie responsabilità.

…e fame
Altri aspetti del Summit sollevano perplessità: la creazione di reti di personalità influenti, di esperti scientifici e di “coalizioni internazionali” coordinate da alcuni governi e da alcune imprese delle quali non è chiaro il mandato. Una scelta molto criticata è stata la nomina a inviata speciale Onu per il vertice di Agnes Kalibata, presidente dell’Alleanza per la Rivoluzione Verde in Africa (Agra). Questa organizzazione è tra i maggiori fautori dell’industrializzazione dell’agricoltura africana a opera dell’agrobusiness: è sotto gli occhi di tutti che imporre l’uso di prodotti chimici di sintesi e organismi geneticamente modificati ai popoli africani non solo non ha ridotto la malnutrizione, ma ha approfondito le disuguaglianze e la fame a discapito dei saperi locali dei popoli indigeni. L’ultimo rapporto dell’Onu rivela che nel 2020 circa il 12% della popolazione mondiale era in condizioni di insicurezza alimentare o di denutrizione. Molte di queste persone sono proprio produttori agricoli, pescatori e allevatori, le cui condizioni sono aggravate anche dalla crisi ambientale. Sono le prime vittime delle politiche alimentari che prediligono le logiche di mercato e di profitto.

Oltre la filantropia delle false soluzioni
L’Associazione Rurale Italiana (Ari) precisa che il Summit propone a priori delle false soluzioni, quali certificazioni di sostenibilità volontarie per le imprese, digitalizzazione dell’agricoltura e uso degli Organismi geneticamente modificati (Ogm). «Senza affrontare i problemi globali su scala sistemica, come fanno la sovranità alimentare e l’agroecologia contadina, si pone l’attenzione su singole “soluzioni”, accessibili a fronte di forti investimenti e proposte dalle imprese che promuovono il capitalismo filantropico».
Alessandra e Paola, due contadine di Ari, si confrontano quotidianamente con i problemi dell’agricoltura: «Anche in Italia e in Europa la mancanza di reddito e di servizi pubblici portano alla scomparsa delle piccole aziende e allo spopolamento rurale; e lo scarso sostegno pubblico, sommato ai carichi burocratici e amministrativi, ci rende più vulnerabili ai cambiamenti climatici. Abbiamo bisogno di politiche basate sulla tutela dei diritti, e vogliamo essere protagoniste nel definirle».

 

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Last modified on Giovedì, 26 Agosto 2021 19:06

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