Martedì, 03 Aprile 2018 12:07

Quanto tempo ci vorrà?

Quante le strade
che un uomo farà
e quando fermarsi potrà?
Quanti mari un gabbiano
dovrà attraversar
per giungere e per riposar?
Quanti cannoni
dovranno sparar
e quando la pace verrà?
Risposta non c'è,
o forse chi lo sa,
caduta nel vento sarà.

Questo canto salmico che Bob Dylan compose nel 1962 non è molto diverso da quelli che oggi, nel 2018, molte e molti di noi ripetono dentro di sé. Non lo dico con sensazione di nostalgia, anche perché nel 1962 ero molto piccola. Lo dico per ciò che quotidianamente appare nella realtà che ci circonda. Come molti altri salmi che l’umanità continua a comporre in diverse parti del mondo, questo canto non ha nulla di pessimistico. Si tratta di una domanda ripetitiva, una specie di litania che, nella ricerca della pace e della verità profonda, i nostri occhi vedono e i nostri orecchi odono e percepiscono: riguarda la condizione umano-cosmica. Litania molte volte sommessa, soprattutto in tempi come questi, ora in Italia, dove alcuni – contrariamente a ciò che canta questa poesia – predicano che le soluzioni sono a portata di mano.

Peccato, però, che le soluzioni che questi signori proclamano parlino di tutt’altro. Non sembrano preoccuparsi molto di proiettili, bombe, guerre e di chi le fa. E nemmeno di montagne e foreste, o di libertà fatta di diritti e doveri e di partecipazione. Garantiscono denaro e solo denaro; promettono una strana vita protetta da ogni intruso, soprattutto se viene da quei Paesi che noi riconosciamo solo in quanto acquirenti delle armi costruite da noi.

Forse sono parole che suonano retoriche? Può darsi.

È anche vero che la canzone di Bob Dylan veniva scritta e cantata in anni ormai lontani dalla nostra falsa ipermodernità, eppure il tempo voluto da alcuni esseri umani sembra essere proprio ciclico. Non ciclico come quello della sapienza greca, che nasce dal mito e al mito infinito ritorna. Nel nostro caso la ciclicità è dovuta all’arrogante volontà umana della sicurezza e stabilità. Volontà di non perdere potere e status acquisiti.

Proprio il contrario dell’ immagine del soffio del vento portatore di risposte, là dove i nostri cuori sono più inquieti. Perché il vento dovrebbe soffiare la risposta ai nostri Paesi sempre più vergognosamente ottusi, che si risvegliano solo al suono del denaro sonante? Abitati dalla cultura del denaro, affidati solo ai calcoli della tecnologia. Non della scienza – magari – ma della tecnologia, cioè di un’arte gestita ancora una volta dai nostri cervelli.

Nel canto salmico tutto è affidato a un labilissimo soffio di vento, che oggi può toccare a te e domani a un altro o altra. Quel vento che non ha una forma stabile, anzi che scompiglia le forme. Eppure il vento ha la risposta, ma per ascoltarlo non possiamo continuare a ripararci, ad avere cura solo di noi a scapito del resto dell’umanità e di tutto l’universo.

Per udire ciò che dice il vento devo cercarlo, perché il vento non c’è tutti i giorni, a meno che ciascuno di noi non si esponga sulle rive degli oceani, o in cima a uno scoglio, senza riparo. Oppure cammini nei luoghi deserti, dove il soffio muove quasi invisibili granelli di sabbia, e chi là abita lo percepisce. Vento soffio, vento uragano, vento pioggia, vento maestrale, vento tramontana. Insomma, vento e ancora vento, la risposta va cercata, ma per cercarla bisogna anche porci la domanda: sul disumano, sulle guerre, sull’esclusione, sulla violenza, sulla pace; vento sulle relazioni, vento sull’amore, vento sui sani e sui malati, sui vecchi e sui giovani. Vento e solo vento.
Chi ha orecchi per intendere, intenda.

Last modified on Martedì, 03 Aprile 2018 12:15

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