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Rosario Zurzolo e Giusy Carnà si conoscono dalla prima elementare. A Camini, Comune della provincia di Reggio Calabria, sono cresciuti insieme e hanno visto tanti amici partire. Il centro storico, fantasma dello splendore del secolo XVI, nel 2011 era vuoto. Gli abitanti del Comune si erano ridotti a settecento, in prevalenza persone anziane.
Lo spopolamento aveva afflitto il paese dagli anni Cinquanta del secolo scorso. Ogni dieci anni la popolazione diminuiva: dal 1991 al 2001 del 14,32%, dal 2001 al 2011 del 16.76%. Un’emorragia inarrestabile.

«Abbiamo visto tanti nostri amici andare via», dice Rosario. Ma lui e Giusy decidono di restare e nel 1999 creano una cooperativa per l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. La chiamano Eurocoop, in onore dell’Europa, che si accingeva a introdurre la moneta unica. Con l’emergenza Libia del 2011, incoraggiati da Domenico Lucano, sindaco di Riace, che dal 1998 aveva ospitato profughi curdi, si aprono allo Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). 

Ristrutturano alcune case disabitate del centro storico e accolgono undici giovani africani della Costa d’Avorio. «Da subito avremmo voluto accogliere famiglie – precisa Rosario –, perché con loro l’integrazione è più facile. Per gli anziani di Camini chi era del paese vicino era già “straniero”; figuriamoci chi arrivava dalla Costa d’Avorio!». Comunque il coraggio di avviare l’esperienza ha dato i suoi frutti.

Oggi Eurocoop ha sviluppato tre diversi ambiti di intervento: edilizia, agricoltura e terzo settore. Quest’ultimo, che opera per l’accoglienza e l’integrazione di profughi, si chiama Jungi mundu, in dialetto “unisci il mondo”.

Dal 2011 il centro storico è rinato. Le case sono state progressivamente ristrutturate per accogliere, in piccoli nuclei, fino a centoventi persone che si autogestiscono per il cibo e altri piccoli bisogni.

L’integrazione avviene anche facendo spesa nei negozi: l’economia del paese è rinata e si sono create relazioni di fiducia fra ospiti e abitanti. Ogni ospite riceve 250 euro al mese, di cui 75 in moneta europea e 175 in moneta locale, condivisa dai Comuni solidali della Locride.

Un modo creativo per ovviare ai ritardi dei finanziamenti pubblici: «I negozi di Camini convenzionati con Jungi mundu accettano questa moneta – spiega Rosario –. Così gli ospiti possono scegliere il cibo che preferiscono, lasciando in loco quasi il 70% di quanto ricevono». Appena arrivano i fondi, la moneta locale riscossa dagli esercenti diventa corrispettivo in euro. «Il nostro è un lavoro: non è volontariato – precisano a Jungi mundu –. Attualmente nella cooperativa operano quaranta persone con regolare contratto. Nel 2011 abbiamo reinvestito subito quanto ricevuto dal sistema Sprar acquistando un grande palazzo nel centro di Camini. Lo stiamo ristrutturando dal 2012, stanza dopo stanza. Oggi ospita tutte le attività della cooperativa, inclusa la scuola».

«Non è stato facile, ma il sostegno costante delle nostre famiglie ci ha permesso di superare le difficoltà – sottolinea Rosario –. Il nostro è un lavoro normale, fatto con dedizione: dal lunedì alla domenica. Abbiamo scelto di essere sempre disponibili all’ascolto, per chi necessita di un intervento cardiochirurgico o… di una lampadina. Sono fiero di mia moglie Giusy, che non perde mai il sorriso. Questo lavoro ha rafforzato la nostra unione». E ha ridato vita a Camini, che da paese di emigrazione è diventato paese di immigrazione.

«Fino al 2014 il punto di accesso scolastico aveva otto alunni; oggi ne ha trenta. La scuola materna, chiusa dal 2009, è stata riaperta quest’anno; segno di grande speranza», esclama Giusy con gioia.

«10 anni. Il nostro futuro dipende dalle bambine di questa età». Non poteva essere più chiaro il messaggio di apertura del Rapporto 2016 del Fondo Nazioni Unite per la popolazione (Unpfa). Messaggio che viene accompagnato, in copertina, da dieci volti di bambine sorridenti, provenienti da diverse parti del mondo.

I volti del nostro futuro, se sapremo vincere la scommessa per garantirglielo, ovunque esse abitino: in Bangladesh o Camerun, in Giordania o Norvegia, negli Usa o Guatemala, in Albania o Brasile, in Vietnam o Swaziland. Ma perché proprio le decenni?
Perché quando le bambine compiono dieci anni, il loro mondo comincia a cambiare.
È questa infatti (in molti continenti) l’età che indica il passaggio verso l’adultità, che segna l’inizio dell’adolescenza e spesso anche il destino di queste piccole donne. Alcune vengono date in spose (circa 50mila ogni giorno), altre, proprio perché “signorine” (come dicevano una volta le nostre nonne per segnalare l’arrivo del menarca), rimangono incinte e queste gravidanze precoci segneranno la loro vita e (se non è già accaduto con il matrimonio) la fine del loro percorso di studi (a oggi circa 16 milioni di bambine non hanno accesso all’istruzione).

A soli dieci anni, mentre le nostre figlie o nipoti stanno concludendo il percorso di studi della scuola primaria, ci sono coetanee che diventano proprietà di qualcun altro, merce da vendere o comprare, braccia da far lavorare per contribuire al mantenimento di famiglie in cui solo ai maschi è consentito il diritto di studiare.
L’esistenza di queste bambine d’improvviso cambia, portandosi dietro il loro (e il nostro) futuro. Un futuro importante, se si tiene conto, stando ai dati demografici diffusi dal Rapporto Unfpa*, che viviamo in un tempo segnato dal più alto numero di popolazione giovanile: 1,8 miliardi di abitanti sono giovani, 125 milioni hanno meno di dieci anni e, fra questi, le bambine sono oltre 60 milioni. L’89% di questi minori vive nelle regioni più povere: è sufficiente pensare che il 20% dei bambini e bambine sotto i dieci anni vive in India e il 12,3% in Cina, per capire di chi e cosa parliamo. Ora, con questi numeri alla mano, si comprende meglio come il fatto che i dieci anni equivalgano, per tante piccole donne, all’età della “scelta” della loro vita futura sia un’intollerabile violazione dei diritti delle bambine. Una sconfitta, per un mondo che non s’impegna sul serio affinché ciò non avvenga.

Partendo da questa considerazione parte la sfida del Rapporto Unfpa, sfida che coinvolge direttamente le dieci bambine scelte per la copertina e presentate all’interno del dossier, adolescenti che verranno seguite, per vedere cosa accade nel loro futuro alla luce dell’Agenda 30 per lo sviluppo sostenibile e dei suoi diciassette obiettivi (ridurre la povertà e la fame; aumentare la qualità dell’educazione e la possibilità di accedervi; migliorare la salute; raggiungere l’eguaglianza di genere; ridurre le diseguaglianze sociali; avere accesso all’acqua e all’energia pulita; avere la possibilità di un lavoro dignitoso; vivere in insediamenti sicuri e sostenibili, in contesti di pace, in condizioni ambientali sane che salvaguardino e rispettino il mare e la terra).

La storia di queste bambine sarà il metro di valutazione dell’efficacia dell’Agenda, consapevoli del fatto che, ogni anno che passa e che ci avvicina al 2030, equivale a un meno 7% del tempo che le nazioni si sono date per “salvare il mondo”. Perché, se è vero che gli obiettivi sono ambiziosi, è anche vero che è dalle buone pratiche comunitarie che si vedranno i risultati. Per quel che riguarda le nostre decenni, che tra meno di quindici anni saranno diventate giovani donne, la loro possibilità concreta di avere un futuro diverso, che tenga conto delle loro potenzialità, è ciò che determinerà non solo il loro futuro, ma il futuro di tutte e tutti noi.

* Il Rapporto 10. How our future depends on a girl at this decisive age è stato presentato a Roma e in oltre cento città nel mondo (Londra, Parigi, New York. Bangkok, Madrid…), in contemporanea lo scorso 20 ottobre.
È scaricabile dal sito: www.unfpa.org/swop

La Rete dei Viandanti ha organizzato lo scorso mese di ottobre a Bologna il suo secondo convegno nazionale, dal titolo Chiesa, di che genere sei? Carismi, ministeri, servizi per un popolo di donne e di uomini. Gli interventi di relatrici, relatori e partecipanti sono stati molto chiari nelle analisi e coraggiosi nel guardare al futuro.

Cettina Militello ha ricordato come il Battesimo conferisca a ogni persona i tre doni del Sacerdozio, della Regalità e della Profezia, senza distinzione alcuna di condizione sociale o di sesso. Il Concilio aveva riscoperto questa verità, ma ancora oggi sembra che i tre munera (doni, ndr) siano riferibili solo ai ministri ordinati, la cui funzione invece dovrebbe essere solo “segnaletica”, finalizzata a condurre tutto il popolo di Dio a vivere sacerdozio, regalità e profezia. Dobbiamo cambiare l’attuale modello di Chiesa che si discosta troppo dal modello delle origini e per farlo non possiamo aspettare le direttive di qualcuno, ma dobbiamo prendere l’iniziativa e sperimentare modelli nuovi nella catechesi, nella liturgia e nell’evangelizzazione.

Maria Cristina Bartolomei ha lucidamente spiegato quanto sia assurdo porsi il problema della collocazione delle donne nella Chiesa, perché equivale a certificare che le donne sono fuori dalla Chiesa. La loro specifica collocazione infatti è definita in base a ciò che esse non possono essere e fare. Il ruolo femminile si differenzia da quello maschile esclusivamente in base a dei divieti.

Ma cos’è che fa così paura nelle donne? Nei due millenni di cristianesimo sono cambiate moltissime cose: solo i divieti rivolti alle donne non possono cambiare? L’importanza attribuita all’esclusione delle donne dai ministeri porta a una conclusione amara: la Chiesa si fonda sull’esclusione delle donne!

Con ogni evidenza questa scelta è nettamente contraria al Vangelo perché Gesù non ha mai escluso nessuno in base al sesso. L’ostinazione nel non volere riconoscere l’uguaglianza di donne e uomini ha anche gravi ripercussioni sul piano socio-politico, perché finisce per confermare l’assoggettamento delle donne nel mondo.

Serena Noceti ha auspicato una nuova consapevolezza sull’essere della Chiesa cattolica marcatamente gender oriented. In essa infatti la differenza di genere è decisiva per marcare ruoli, spazi e poteri, ma di solito questo non viene riconosciuto perché si attiva una “cecità di genere” che porta a considerare neutro ciò che neutro non è: magistero, linguaggio, prassi pastorale… Molte sono state le prospettive di azione indicate, tra le quali il cambiamento degli stili comunicativi da unidirezionali a sinodali.

La tavola rotonda al maschile ha visto il confronto tra l’archimandrita Dionysios Papavassiliou e il valdese Yann Redalié, coordinati da don Giovanni Bottoni. La posizione ortodossa è molto chiara e ferma: i ministri ordinati stanno al posto di Cristo quando offrono il sacrificio per il popolo. Fin dai primi secoli l’ordine è stato conferito solo ai maschi. Il tema dell’ordinazione femminile è figlio della nostra epoca e ha motivazioni sociologiche, non teologiche.

Il problema quindi non esiste. Come non esiste, ma per opposti motivi, nelle Chiese protestanti tradizionali, che non fanno differenze tra uomini e donne. La presenza di Cristo, infatti, ha detto Redalié, è nella comunità che celebra. Non c’è uno status da possedere per presiedere la Santa Cena e anche la capacità di leggere la Parola viene dal sacerdozio universale. Certo, è una capacità che non s’improvvisa, infatti la formazione nelle Chiese protestanti è fondamentale.

Se per i cattolici la Chiesa è madre, per i protestanti è scuola.
Gianfranco Bottoni ha concluso affermando che «le secolari censure ecclesiastiche nei confronti dei ruoli femminili sono il segno della distanza tra la prima comunità attorno a Gesù e la religione che ne è nata in seguito».
Decostruire la religione e riscoprire Gesù, questa sembra la strada.

«Perché non parlate della Marcia della speranza, uno degli eventi più significativi in Israele, almeno negli ultimi anni?» - lo denuncia dal suo blog Orna Raz. Con un dottorato in letteratura inglese all’Università ebraica di Gerusalemme, lo scorso novembre la blogger ha indirizzato una lettera aperta ai corrispondenti delle testate internazionali che in Israele hanno ignorato la marcia di migliaia di donne.

Le donne marciano per la pace, e i media tacciono… «La scusa è che la marcia a favore della pace non interessa i vostri quotidiani e che le notizie più importanti, in questo momento, avvengono in altre parti del mondo. Non mi sorprende che al mondo non interessino le migliaia di donne che in Israele hanno marciato per la pace. Ma se siete giornalisti in questo Paese sapete bene che Women Wage Peace è la più inclusiva organizzazione di base. Da quando è iniziata, nel 2014, raccoglie migliaia di donne, palestinesi e israeliane, di ogni classe sociale e ruolo politico».

Una cofondatrice del movimento, Marie-Lyne Smadja, aggiunge: «La storia insegna che quando le donne si coinvolgono nel risolvere i conflitti, c’è maggiore probabilità di raggiungere la pace».

Anche Leymah Gbowee, attivista liberiana e Premio Nobel per la pace 2011, ha indirizzato un messaggio alle partecipanti alla Marcia della speranza: «Il potere di generare pace è in voi!».

Le migliaia di madri e donne che hanno marciato lo scorso 19 ottobre dalle rive del Giordano, presso Gerico, fino a Gerusalemme hanno chiesto la fine del conflitto fra palestinesi e israeliani, ma sono state ignorate dai media internazionali.
«Noi donne sappiamo bene che quando apriamo la nostra mente e il nostro cuore possiamo pensare e proporre soluzioni creative» - afferma Orna. Lo stesso movimento Women Wage Peace è frutto di questa creatività: apre un ventaglio di possibilità e non presume di avere risposte.

Angelica Berrie, filippina, che ha vissuto la pacifica rivoluzione contro il presidente Marcos, plaude alle migliaia di donne, israeliane e palestinesi, che, alla fine della marcia, si sono accampate davanti alla residenza del Primo ministro Netanyahu.
Con determinazione non-violenta hanno chiesto pace.

Ma ci voleva un canto e una preghiera a dissolvere il silenzio che aveva avvolto l’iniziativa di Women Wage Peace.

La cantautrice Yael Deckelbaum, insieme alle donne del movimento, ha composto un canto, Preghiera delle madri, e lo ha pubblicato su youtube. È diventato subito virale.
Così, in pochi giorni, ha sopraffatto il lungo silenzio dei media internazionali e dato voce alla speranza delle donne che , anche in Israele e Palestina, agiscono per la pace.

Oggi, non solo possediamo tantissime cose, ma spesso siamo possedute dalle cose.
Basti pensare al nostro tempo quotidiano che viene assorbito dallo stare dietro ai dieci mila oggetti, che generalmente noi europei abbiamo nelle nostre case.
Qual'è l'essenziale per vivere bene?

L'economia della felicità ci rivela che la felicità non dipende dall'accumulo di tanti oggetti ma dipende dai beni relazionali. Se ci sono, allora siamo felice. Ecco dove sta l'essenziale: nelle relazioni umane. Le statistiche sulla realtà italiana, anche le più recenti, mostrano sempre che è aumentata la fascia di chi è a rischio di povertà.

Non raccontano mai che esiste anche una povertà relazionale, la quale supera altamente quella economica e si manifesta in varie situazioni umane di sofferenza: persone sempre più sole e abbandonate; anziani costretti a morire da soli e ritrovati addirittura dopo anni; il disagio giovanile che è sempre più forte a causa della mancanza di relazioni umane e del sapore della vita, anche se i giovani hanno tutte le tecnologie dal tablet all'ultimo smartphone; adulti sempre più di corsa per aumentare il potere di acquisto ma svuotati del gusto di vivere e di calore umano; bambini costretti a stare sempre più soli davanti alla tv, ad internet e ai tantissimi giocattoli.

Nonostante che possediamo tanti oggetti e abbiamo a disposizione tanta tecnologia, siamo sempre più affamati e assetati di relazioni che esprimono l'affetto del calore umano, senza il quale non possiamo vivere. E questo viene reso concreto mediante un abbraccio, una mano data, un sorriso, un incontro, lo stare insieme, il condividere la vita, la tenerezza quotidiana, ecc.

Un giovane di 19 anni mi ha manifestato che una sua grande sofferenza dipendeva dal fatto che suo padre non gli aveva mai dato un abbraccio. Mentre un adolescente di 16 anni mi ha rivelato, che quando tornava a casa da scuola aveva tanta voglia di raccontare ai propri familiari quello che stava vivendo, ma durante il pranzo non poteva parlare perché la televisione era sempre accesa.
Una mamma mi ha detto che sua figlia quando tornava dall'università le chiedeva sempre un abbraccio e lo voleva fatto bene. Mentre un'altra mamma è venuta a parlarmi insieme con sua figlia, dopo la conferenza, e mi ha raccontato che quella sua figlia un giorno le aveva detto che era emotivamente stitica come mamma. Allora da quel giorno si era impegnata a darle l'affetto materno e si era accorta che acquistava e consumava meno, perché le relazioni umane la arricchivano e l'aiutavano a liberarsi dal consumismo compensatorio.
Un ragazzo di 14 anni mi ha descritto il regalo più bello che aveva ricevuto in uno dei suoi compleanni: la lettera che sua mamma gli aveva scritto a mano, generando in lui molte emozioni positive nel rileggerla varie volte.
Una bambina di 8 anni ha fatto commuovere la nonna quando le aveva chiesto un abbraccio molto forte e lungo.

Sono alcune testimonianze che ci dicono quando è importante il calore umano generato dalle relazioni che esprimono l'amore tra le persone.
Papa Francesco, nella sua bella enciclica Laudato si', ci rivela che tutto nel creato è connesso, collegato e in relazione. Con altre parole, il creato è una grande tela di relazioni e ogni creatura, soprattutto quella umana, è costitutivamente relazionale.

Siamo esseri relazionali e le relazioni umane sono il nostro ossigeno per vivere.
Non dimentichiamoci di questa dimensione essenziale per poter vivere bene! Altrimenti, rischiamo di diventare dei morti viventi.

Allora, in questo periodo natalizio, dove tutti siamo impegnati a scegliere i regali da offrire, fa bene ricordarci che il più bel regalo siamo noi e non le cose.
E questo regalo non è in vendita nei negozi. Si chiama amore e lo si concretizza mediante relazioni umane vive, gratuite e ricche di calore umano.

Regaliamo quindi relazioni umane!

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Attraverso una rivista, un sito web e social media correlati promuove la dignità di ogni persona nel rispetto delle differenze di genere, di cultura e di religione, per far crescere società inclusive attente al bene comune.

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