Ripensare tutto, a cominciare dal quotidiano Annie Spratt
Martedì, 24 Marzo 2020 19:37

Ripensare tutto, a cominciare dal quotidiano

Nel tempo sospeso che stiamo vivendo, bloccate in casa dal coronavirus, si apre lo spazio di un ripensamento che abbraccia tutti gli aspetti della vita. A noi due – Vita e Marina – sono tornate in mente le parole orientanti di una pensatrice postpatriarcale che da tempo lavora a un nuovo inizio del pensiero sul mondo. Vi proponiamo stralci della sua comunicazione al Simposio delle filosofe 2006. Il testo completo si trova nel libro Il pensiero dell’esperienza, a cura di Annarosa Buttarelli e Federica Giardini (Baldini Castoldi Dalai editore 2008). (Vita Cosentino e Marina Santini)

Con una parola qualsiasi può prendere inizio un nuovo modo di parlare. Per esempio la parola “quotidiano”. Ma cosa vuol dire quotidiano? Esiste davvero il “quotidiano”?
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Cosa intende davvero la gente quando pronuncia questa parola?

Un ragioniere, per esempio, si lamenta della monotonia della sua vita professionale quotidiana. Ragazze e ragazzi che frequentano la scuola sospirano quando dopo le vacanze estive devono ricominciare ad andare a scuola. La rigidità dell’organizzazione scolastica, la necessità di alzarsi presto, il curriculum prestabilito e i traguardi di apprendimento da raggiungere sembrano riempire di senso ciò che si chiama quotidiano. Il contrario di ciò che avviene durante le vacanze quando si può disporre abbastanza liberamente del proprio tempo, oppure quando si può fare un viaggio verso mete ignote. Comunque anche durante le vacanze vivo un senso di quotidiano perché, per quanto io sia libera, devo però mangiare, dormire, andare in bagno. La parola “quotidiano” sembra un concetto relazionale. Il significato concreto di questa parola si può definire solamente in relazione a un suo contrario, quello di non-quotidiano. Sembra che resti comunque invariato il fatto che “quotidiano” significhi sempre il lato ripetitivo e funzionale di un’esperienza. Una vincita al Lotto, una festa, un incidente, una malattia improvvisa, degli ospiti che mi possono «far uscire dalla mia routine quotidiana». Forse mi torna poi la voglia di ritornare al tranquillo trascorrere sempre uguale del tempo. L’avvenimento particolare, che sia atteso o inatteso, o proveniente da un contesto più ampio – una istituzione per esempio – può accadere senza che ci si chieda ogni momento che senso possa avere ciò che si sta facendo e quale libertà ci possa dare.

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Se il quotidiano fosse la noiosa routine data dalla ciclicità del corpo umano e dalla necessità di amministrare la convivenza umana, allora oggi, rispetto ai tempi passati, per molte persone le cose sarebbero cambiate in meglio. Perché oggi si parte generalmente dal presupposto che tutti e tutte, donne, uomini e bambini, persone di ogni età e di ogni professione, possono fare esperienza di entrambe le cose: quotidianità e festa, funzionamento sempre uguale e libertà da scopi ben precisi. Una gran parte di ciò che una volta riempiva le giornate di molta gente – come far il fieno, il fuoco, il pane, camminare molto a lungo, fare il bucato, abbattere alberi… – è oggi svolta da macchine. Sembra che ci si avvicini a uno stato delle cose nel quale il lavoro rivolto immediatamente alla riproduzione può scomparire lentamente, se si vuole farlo scomparire. Ora et labora, la regola dei Benedettini, che si rifà alla vita vissuta da Gesù Cristo di Nazareth, aveva trasformato il parallelismo tra vita ripetitiva e contemplativa in virtù. Tutti dovevano vivere in un alternarsi di fare ripetitivo e stare contemplativo.

Nel frattempo però l’esistenza finalizzata a uno scopo sembra debba scomparire dalla vita di tutti noi, ma a favore di che cosa? A favore della libertà, dell’avvenimento particolare? Abbiamo a disposizione ancora altri termini per contrario del quotidiano: tempo libero, dinamicità, avventura, festa, creatività, progresso… Tutte queste parole promettono di coltivare in forma pura l’avvenimento che esce dal quotidiano. Tutta la vita tende a trasformarsi in qualcosa di speciale.

Il progetto di modernità che sembra essere valido e imposto a tutti, e che intende rendere possibile una vita umana che possa delegare la gestione della routine alle macchine, è però continuamente eluso e contaminato da un’antica visione occidentale del mondo che prevede l’esistenza di certe persone addette ai servizi di routine e altre dedite a una vita libera dai bisogni. In La politica, Aristotele scrive a proposito della «scienza dei rapporti fra padrone e schiavo», e dice: «È ovvio che la natura ha creato esseri liberi e schiavi e che per quest’ultimi è bene e giusto servire. In ugual modo si regola il rapporto fra maschi e femmine: uno è migliore, l’altro inferiore, uno governa e l’altro è governato».

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Non sbaglia allora chi a volte ha la sensazione che la vita quotidiana (da eliminare) sia una cosa in qualche modo femminile, che questa vita quotidiana si svolga soprattutto a casa mentre le donne in carriera, le top manager, le docenti universitarie e i politici parlano ogni tanto della “vita passata in riunione”, dei problemi durante il semestre o dei tanti spostamenti che devono compiere. Proprio lì nella libertà del mondo maschile, fuori di casa avvengono le cose più importanti, le cose non quotidiane.

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Oggi l’essere umano giusto è l’homo oeconomicus, talvolta anche sotto forma di essere femminile emancipata il/la quale aziona solo bottoni quando vuole mangiare, espellere escrementi o riprodursi. La noia del cucinare, pulire, fare il bucato è scomparsa per coloro che hanno fatto carriera. Scomparirà per tutti. Nessuno dovrà più doverla subire. Rispetto a questa meta, se capisco bene, capitalismo e comunismo tirano dalla stessa parte. Entrambi partono dal presupposto che la sfera del funzionamento quotidiano è femminile e che questa sfera femminile deve scomparire dalla definizione di una vita umana-modello alla quale tutte e tutti aspiriamo. Ma fino a quando questa sparizione non sarà realizzata, si tace semplicemente la vita quotidiana delegandola tuttora alle persone non ancora appartenenti alla nostra società dei diritti, domestiche straniere, badanti slave… delle quali comunque non si parla mai.

E di che cosa ci occuperemo in futuro quando non dovremo più cucinare, pulire e fare il bucato; forse non dovremo più neanche fare la pipì, dormire, partorire o morire? Ci occuperemo di cose diverse dalla quotidianità: di cose speciali.

Ma potranno dare un senso alla nostra vita le cose speciali? La maggior parte di noi vivrà per qualche decennio. Si esordirà come neonati bisognosi di cura e si finirà la vita come vecchi, sempre più vecchi, bisognosi di cura. Cosa può succedere se tutta la vita dovesse diventare un avvenimento speciale? In altre parole, non sarà ritenuto assurdo quello che succederà?

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Hannah Arendt ha coniato, nel suo libro Vita activa, un concetto dal quale voglio partire per proseguire il mio pensiero: «il tessuto relazionale delle faccende umane».

Diversamente dalla Arendt, non intendo vedere questo tessuto relazionale, nel quale iscrivo la mia vita, come un «cerchio di eterno ritorno» ma come un bambino appena nato per il quale non esiste differenza di significato fra fare la pipì oppure contemplare qualcosa, per il quale lavoro e gioco non hanno ancora acquisito un diverso valore. In questo modo considero la mia esistenza come un tutt’uno.

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Last modified on Martedì, 24 Marzo 2020 19:59

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