Lunedì, 26 Novembre 2018 20:46

Dalle parole ai fatti

«La violenza contro le donne è un’offesa a ogni persona che noi riconosciamo creata a immagine e somiglianza di Dio, nonché un gesto contro Dio stesso» dichiararono i rappresentanti delle tre confessioni cristiane (ortodossa, cattolica e protestante) in una lettera indirizzata al Senato della Repubblica Italiana nel 2015. Quale forma concreta ha assunto il loro impegno?

La lettera non si limitava a denunciare la violenza: dichiarava l’impegno a portare avanti «un’azione educativa e pastorale profonda e rinnovata», sia per liberare gli uomini «dalla spinta a commettere violenza sulle donne», sia per sostenere «la dignità delle donne».
La dichiarazione affonda le sue radici nel Decennio Ecumenico di Solidarietà delle Chiese con le Donne, indetto nel 1988 dal Consiglio Ecumenico delle Chiese** con la partecipazione di molte donne cattoliche. Alla sua conclusione nel 1998, dalle visite alle Chiese aderenti di tutto il mondo era emersa una ben triste conclusione: ciò che univa le donne di ogni confessione di fede, ceto sociale e regione geografica era il fatto di subire violenza da parte degli uomini, talvolta tollerata dalle stesse Chiese. «Era ora – scrivevano le donne alla fine del Decennio – che queste dichiarassero peccato la violenza di genere».

Coscienze risvegliate
La violenza maschile sulle donne è entrata nel discorso teologico negli anni Ottanta del secolo scorso. Precursore in questo senso è il libro, mai tradotto in italiano, della nota biblista Phyllis Trible, la quale fa seguire Rhetoric of Sexuality da Texts of Terror: gli «antichi racconti del terrore parlano in modo fin troppo spaventoso al presente».
Cresce l’attenzione alla violenza di genere, ma dobbiamo aspettare il 1995 prima che l’argomento entri nel piano d’azione della Conferenza mondiale sulle donne organizzata dell’Onu a Pechino.
A livello teologico, la pietra miliare è una raccolta di saggi di autrici protestanti e cattoliche pubblicata nel 1989: Christianity, Patriarchy and Abuse.
Nel 1994 un numero di Concilium curato da Elisabeth Schüssler Fiorenza e Mary Shawn Copeland darà un buon riassunto di questa produzione angolofona. Nel frattempo la violenza di genere codificata nelle scritture continua a destare attenzione, mentre diventa evidente che il motivo di fondo della stessa impresa teologico-femminista sia la violenza maschile da cui nessuna donna può ritenersi immune: le Chiese, soprattutto in ambito evangelico, si attrezzino per contrastarla e garantire sostegno alle sue vittime.

Prassi da trasformare
Nel 2002 la Federazione Luterana Mondiale pubblica in italiano Le chiese dicono ‘No’ alla Violenza contro le Donne, mentre ogni anno la Federazione delle Donne Evangeliche in Italia, che raggruppa donne avventiste, battiste, luterane, metodiste, valdesi e dell’Esercito della Salvezza, offre una serie di meditazioni sul tema: “I 16 giorni per vincere la violenza”. Pare tuttavia che le Chiese facciano fatica ad affrontare il nocciolo della questione: il messaggio cristiano è diventato succube dell’ordine sociale e simbolico responsabile della violenza di genere. Se, come recita la lettera del 2015, le Chiese s’impegnano «a sradicare la pianta cattiva di culture, leggi e tradizioni che ancora oggi discriminano la donna», farebbero bene a cominciare dalla «casa di Dio».
Molte studiose sono convinte che quando la tradizione cristiana viene letta a partire da un contesto patriarcale, quale quello in cui è stata generata, essa contribuisce a reiterare le stesse condizioni responsabili della violenza sulle donne. Nel mio libro Cristianesimo e violenza contro le donne, individuo alcuni di quegli aspetti del cristianesimo che si sono rivelati nocivi: tra questi la sottomissione delle donne agli uomini, insegnata dai codici domestici del Nuovo Testamento e ancora presente in alcune liturgie matrimoniali. Tali codici sono particolarmente nocivi in quanto forniscono una motivazione teologica al dominio maschile sulla donna.
Un altro aspetto consiste nell’antica identificazione della donna con la tentazione e il peccato. Sebbene, si spera, tale identificazione non trovi più spazio nelle omelie domenicali, essa perdura nei tribunali, dove serve a colpevolizzare colei che ha subito violenza scagionando colui che l’ha commessa.
Alcune dottrine di redenzione, poi, interpretano la morte di Cristo come castigo per i nostri peccati. Secondo tale ottica, tuttora molto presente nella pietà popolare, la sofferenza è salvifica e le vittime di violenza si trovano senza vie d’uscita: non è raro che venga loro detto di «portare la propria croce», ovvero di subire gli abusi per poter salvare sé stesse e, chissà, anche l’abusante.

Uno sguardo critico
Alcuni aspetti nobili del messaggio cristiano, come il detto di san Paolo «l’amore sopporta tutto», possono creare un clima in cui la violenza non desta scandalo né produce denunce: il cristianesimo ha fatto proprie quelle relazioni ineguali tra uomini e donne di cui la violenza non è che una manifestazione.

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Last modified on Lunedì, 26 Novembre 2018 21:13

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