Venerdì, 19 Aprile 2019 15:38

In mezzo a una ferita profonda

La terra rossa delle strade infiltra le pareti delle case e le vesti di chi le abita. Siamo a Wau, per decenni capitale del Bahr el-Ghazal, una regione del Sudan meridionale lungo il Nilo delle Gazzelle.
Una maestosa cattedrale di mattoni rossi accoglie chi arriva, incanto di essenzialità che ha resistito alla lunga guerra civile. Poco distante troneggia il bianco della moschea. In questa città, che oggi conta circa 127.000 abitanti, e quasi 25.000 sfollati che dal 2016 vi trovano ancora rifugio, un secolo fa arrivavano le prime missionarie comboniane. Tessiamo le fila della loro presenza, bruscamente interrotta nel 1964 dall’espulsione. E da Wau lo sguardo spazia a tutto il Sud Sudan, terra ancora profondamente ferita. Rimandiamo al prossimo numero le speranze e delusioni degli ultimi decenni

Il Sud Sudan è tuttora dilaniato da una guerra civile che si trascina da oltre mezzo secolo. Queste pagine non osano svelare gli intricati retroscena di tanta sofferenza, subita e inferta. Svelano semplicemente incontri fugaci e relazioni intense, vissute e raccontate con grande umiltà. È un modesto tributo a quelle donne che, senza atteggiarsi a eroine, hanno assunto su di sé il desiderio di riscatto di tante e tanti giovani che nel Sudan meridionale hanno avuto la sorte di nascere.

1919: le prime donne europee
Le cinque comboniane che inaugurarono la comunità di Wau furono Rosa Facci, Valentina Cederle, Clelia Donà, Brigida Carrettoni e Rosilde Giacomello.
Venendo dalle missioni del Sudan settentrionale e dell’Egitto conoscevano un po’ la lingua araba e poterono subito mettersi al lavoro: gli ammalati, anche ottanta al giorno, venivano accolti e curati in una clinica vicina alla casa.
Nel 1920 le donne africane che desideravano diventare cristiane iniziarono la preparazione con le suore.
In prossimità della scuola maschile di Mokhta Wau venne subito aperta la scuola femminile di Mokhta Khor, dove due suore si recavano ogni giorno a insegnare. Era un’ampia capanna con quattro finestrelle, un tavolo e poche panche: il primo giorno si presentarono una ventina di ragazze, che nel tempo continuarono ad aumentare. Nel 1926 le suore assunsero anche la direzione delle scuole maschili.

Io vado dalle suore
Nel 1920 suor Pierina Stoppani visita le missioni al seguito di madre Costanza Caldara, superiora generale, e svela scorci del servizio reso a Wau dalle prime comboniane. La sua lettera è pubblicata da Nigrizia nel luglio 1920.
«Carissima consorella, quanto grande è la consolazione nel vedere il gran bene fatto qui. Le suore hanno vasto campo di esercitare il loro zelo: istruiscono nel catechismo le fanciulle, insegnano un po’ di cucito e le più grandicelle hanno già fatto notevoli progressi. Si recano inoltre a visitare le famiglie nei villaggi e alle domeniche e feste qualcuna sorveglia i bambini che le nere hanno seco. Le donne cristiane qui sono poche in proporzione agli uomini, ma ora si potrà fare molto anche fra esse. Una suora è addetta all’infermeria della missione e vi occupa la mattina ogni giorno. Per medicare le piaghe bisogna spesso accontentarsi di un po’ di bambagia colta sulle piante il giorno stesso. Eppure, nonostante tanta povertà, quelle che hanno più bisogno vengono dai villaggi coi loro vestiti di foglie e spesso preferiscono l’infermeria della missione all’ospedale governativo. L’altro giorno compariva in tribunale una donna con la testa rotta per le bastonate. Finita la discussione le dissero: “Adesso andate all’ospedale, che vi faranno guarire”. “Oh, rispose quella, io vado dalle suore!”. E Dio volle che dopo pochi giorni di cura fosse guarita».

Con un tocco di “carità”
L’ospedale governativo, allestito in modo rudimentale nel 1903 e ampliato nel 1929, era diretto da un medico inglese affiancato da un medico siriano o libanese. Gli operatori locali, reclutati in prevalenza dalle scuole della missione, erano incaricati soprattutto di medicare le ferite e per questo venivano chiamati dressers. C’erano anche magazzinieri e “messaggeri”, che ancora all’inizio degli anni Sessanta recapitavano lettere ai vari uffici e reparti.
Dal giugno 1933, su richiesta del medico inglese, due comboniane vennero assunte come infermiere. Il compenso era poca cosa, ma le soddisfazioni erano tante. Come scrive padre Edoardo Mason nel 1934 su Nigrizia, un ricoverato ebbe a dire «che avrebbe fatto qualsiasi cosa che la suora gli avrebbe detto, poiché era impossibile che non fosse nella verità chi gli usava sì grande carità e pazienza nel servirlo».
Ernie, piaghe tropicali, malarie cerebrali, tubercolosi, lebbra, ferite da belve feroci e da morsi di serpente erano molto diffuse. Più tardi, con l’arrivo di infermiere inglesi e l’avvio di corsi interni, migliora la competenza del personale locale, che però rimane senza le qualifiche professionali. Nel reparto donne vengono assunte ausiliarie locali, sempre provenienti dalle scuole della missione, e le più impegnate sono addirittura inviate al Nord per diventare ostetriche.

Scuole di libertà
La “scuola moderna” era una realtà aliena per i popoli del Sud: ogni etnia deputava agli anziani la formazione dei giovani e la trasmissione di usanze ancestrali. Per il loro stile di vita non c’era bisogno di leggere e scrivere, per questo la prima scuola di Wau raccolse i figli dei soldati egiziani e dei mercanti del Nord. La popolazione locale era diffidente, ma con il tempo e l’evidenza dei vantaggi, l’istruzione cominciò a essere apprezzata. Tutte le missioni erano rinomate per le loro scuole: le lezioni potevano svolgersi nell’essenzialità di una capanna o entro “possenti” (per quelle latitudini) strutture in muratura, ma l’ingrediente principale era la relazione fra insegnanti e studenti: capace di coltivare una sana fiducia in sé e un profondo senso di responsabilità.

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Last modified on Venerdì, 19 Aprile 2019 15:45

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