Lunedì, 28 Giugno 2021 20:26

Diritto di partire, diritto di restare

Da oltre un ventennio il degrado ambientale è stato fatto oggetto di azioni legali a tutela del diritto alla salute. In tempi più recenti anche l’emergenza climatica, con il suo strascico di impatti distruttivi “improvvisi” o “a lenta insorgenza”, è sempre più associata alla violazione dei diritti: alla vita, alla cultura, alla casa. Nel 2019 alcuni abitanti delle isole dello Stretto di Torres (Australia) hanno denunciato il governo federale

Le isole dello Stretto di Torres sono quanto rimane emerso di un collegamento tra la penisola australiana di Capo York e la Papua Nuova Guinea. La loro superficie complessiva è di appena 566 chilometri quadrati, ma sono disseminate su un’area di quasi 45.000. Alcune isole sono grandi, molte sono piccole; due di esse distano solo quattro chilometri dalla costa della Nuova Guinea. Nel 1879 vennero incluse nella colonia britannica del Queensland e dal 1901 fanno parte dell’omonimo Stato australiano. Dal 1982 gli abitanti delle isole, melanesiani, intrapresero procedimenti legali per rivendicare la proprietà della terra, che venne loro riconosciuta nel 1992 con una sentenza storica ripresa anche dagli aborigeni australiani.

TRA PRESENTE E FUTURO
Nel 2019, otto nativi delle isole inondate con più frequenza dalle acque dell’oceano hanno fatto causa al governo federale per non aver adottato misure atte a contrastare il riscaldamento climatico. L’accusa è di aver infranto il loro diritto alla cultura, alla famiglia e alla vita sancito dalla Convenzione internazionale dei diritti politici e civili e minacciato dall’innalzamento del livello dei mari.
È la prima volta che uno Stato viene portato davanti al Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite dai suoi cittadini e con questo capo di accusa. Il governo australiano replica che l’accusa è infondata perché la violazione dei diritti non è ancora avvenuta: rimane a livello ipotetico per il futuro.

IL RECLAMO DEI POPOLI INDIGENI
Ma nei loro ultimi rapporti gli scienziati dell’Ipcc, il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, hanno ripetutamente affermato che i danni sono già evidenti in alcune isole e la popolazione che le abita sarà costretta a spostarsi entro una decina di anni. L’avvocata Mónica Feria-Tinta, che difende il caso delle isole dello Stretto di Torres presso l’Onu a Ginevra, ribadisce che le comunità indigene – e lei stessa ne è espressione in Perù – hanno ereditato pratiche di sopravvivenza radicate nel proprio territorio. Nel caso delle popolazioni dello Stretto di Torres si tratta di abitudini di caccia e di pesca difficili da adottare altrove. Il verdetto sulla controversia è atteso nel corso di quest’anno, ma qualunque ne sia l’esito è evidente che i diritti umani sono sempre più connessi al contrasto del degrado ambientale che da decenni minaccia intere comunità.

Un nuovo modo di collaborare…
Durante la tre giorni del Dialogo internazionale sulle migrazioni 2021 il rappresentante dell’Olanda, Joost Klarenbeek, ha ammesso che per ogni persona che fugge da conflitti ce ne sono tre che si spostano per cause ambientali. Ne deriva che gli Stati devono intervenire con misure adeguate: da una parte mitigare il riscaldamento del Pianeta e dall’altra favorire la resilienza della popolazione in loco facilitando l’adattamento a mutate condizioni di vita. Ma gli interventi saranno infruttuosi senza una collaborazione internazionale ampia e inclusiva: come la pandemia covid-19 potrà essere risolta soltanto “insieme”, così pure l’emergenza climatica. Runa Kahn, fondatrice e direttrice esecutiva dell’ong bangladese Friendship, ha invece indicato che emigrare è una forma immediata di adattamento: un quinto della superficie del suo Paese sarà sommerso quando l’innalzamento del livello del mare avrà raggiunto il metro. Ne consegue che prevenire un massiccio spostamento della popolazione diventa impossibile: si tratta di milioni di persone, non di poche decine di migliaia.

 

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Last modified on Lunedì, 28 Giugno 2021 20:35

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