Lunedì, 10 Ottobre 2022 16:08

Juana Inés de la Cruz

Figlia di quel mondo ardente e mescolato, gravido di futuro e soffuso di nostalgia che è il Messico del Seicento – Nuova Spagna, all’epoca, per l’esattezza –, Juana Inés è ancora poco nota nell’orizzonte ecclesiale, anche se in altri spazi è in piena luce, celebrata come poetessa barocca e conosciuta come icona dei legami femminili. Come un diamante, ha molte sfaccettature e in lei si può seguire la studiosa, la monaca, la teologa – infine, semplicemente, la donna.

AI PIEDI DEL VULCANO
Juana Inés Ramírez nasce a Nepantla, fra Puebla e l’attuale Città del Messico, sotto il Popocatépetl, imponente vulcano che supera i 5.000 metri, il cui nome in nahuatl significa “montagna di fuoco”. È bello ricordare questa nascita di fuoco e cenere, di sole caldo e di stanze ombrose nella hacienda materna. Anche la famiglia merita infatti di essere ricordata: Inés è figlia di Isabel Ramírez, donna intraprendente dell’élite creola. Avrà avuto certamente anche un padre – da cui il cognome de Asbaje –, ma viene registrata come “figlia della Chiesa”. Motivo di emarginazione? Non pare proprio. In seguito la madre si sposa e ha altri figli; Inés è legata a tutti loro e vive la prima infanzia nella fattoria del nonno materno.

FAME DI LIBRI
Nella grande casa del nonno c’è una biblioteca: quella stanza piena di parole e di immaginazione diventa suo rifugio, non proprio autorizzato, perché troppa cultura non fa bene alle ragazze, ma di fatto amabilmente concesso dal nonno. Curiosità, sogni, parole e idee cominciano ad abitarla. Alla morte del nonno viene mandata a Città del Messico, dove i parenti, tra ammirazione e gossip, la fanno partecipare a gare di erudizione e la presentano a corte. In quel contesto Juana, guidata anche da un direttore spirituale, decide di entrare in un monastero, luogo che le consentirà di studiare – come Paola, la compagna spirituale di san Girolamo, di cui quelle suore sono “figlie”.

VOLEVO ESSERE TEOLOGA
Nel monastero avrà libri, compagne con cui condividere molti momenti anche spensierati – dobbiamo pensare a una regola morbida, per signorine di buona famiglia creola – e scriverà anche poesie, sia liturgiche che profane, ricche di immagini e di parole d’amore. In una memoria dirà tuttavia che suo desiderio era studiare la Bibbia e la teologia e di averlo sempre fatto, come ha potuto, in convento e nei dialoghi che si svolgevano nel parlatorio, sorta di salotto letterario e teologico.

LEGARE E SCIOGLIERE
Il “padre spirituale” tuttavia si fa sempre più invadente, forse geloso del suo successo nelle liriche liturgiche, forse semplicemente obbediente a un’idea rigida di ciò che una donna dovrebbe fare. Alla fine, Juana scrive una lettera dai toni decisi e “dimette” il sacerdote: chi ha detto che la sua salvezza dipendeva da lui? I suoi servizi non erano più richiesti! In seguito le viene chiesto un commento teologico privato al sermone di un gesuita famoso, ma poi il testo viene pubblicato e confutato da un vescovo che si firma “suor Filotea”: un putiferio!

Poi la svolta: le viene intimato di disfarsi dei libri, di pentirsi e mai più scrivere. C’è la peste e anche Juana ne muore, così quel tornante diventa in qualche modo “definitivo”. Nel frattempo la vice regina a cui aveva dedicato parole bellissime e innamorate fa pubblicare in Spagna la sua opera omnia, rendendola immortale nella letteratura. Nella Chiesa invece dobbiamo ancora imparare a riflettere sulla sua vicenda.

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