Venerdì, 27 Dicembre 2019 14:22

Amazzonia, oltre il Sinodo

Ultima domenica di ottobre 2019. È l’alba; la celebrazione conclusiva del Sinodo sull’Amazzonia già vede pellegrini e pellegrine in fila ai varchi di Piazza San Pietro. Moema Maria Marques de Miranda, moglie e madre, arriva puntuale con un sorriso che esprime tanta gratitudine per l’esperienza vissuta al Sinodo, dove ha rappresentato la Rete ecclesiale panamazzonica (Repam). A distanza di un mese, rientrata in Brasile, medita sulla sua esperienza e il “dopo Sinodo”.

Dall’Amazzonia a Roma, come hai vissuto l’assemblea dei vescovi sui Nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale?
Non ho mai partecipato a un sinodo. La preparazione di questo è durata quasi due anni ed è stata davvero intensa, con ampia consultazione popolare. Ma quando sono arrivata a Roma, non sapevo proprio cosa mi aspettasse.
Già essere nominata rappresentante della Repam è stata una sorpresa spiazzante, ma vivere il Sinodo lo è stato ancora di più. Mi ha positivamente colpito che il Papa partecipasse a tutte le plenarie e ascoltasse sempre con molto interesse, soprattutto le donne e chi rappresentava i popoli “originari”. Era assente soltanto di mercoledì, perché aveva l’udienza pubblica. Altrettanto sorprendente la metodologia degli interventi: avevamo tutti e tutte gli stessi diritti. Ogni partecipante, dai cardinali a noi uditori e uditrici, aveva soltanto quattro minuti di tempo, poteva intervenire soltanto una volta ed era necessario prenotarsi. Io ho scelto di parlare verso la fine.

Che cosa pensi delle conclusioni del Sinodo?
Penso che abbia partorito un documento di valore, che esprime con chiarezza l’urgenza che pervade questo tempo e travolge tutto il Pianeta.
L’urgenza è causata dal modello economico, con effetti particolarmente disastrosi per le popolazioni povere. E sono proprio loro, oggi, maestre di resistenza e resilienza.
La Chiesa cattolica ha preso posizione al loro fianco e ha anche compreso che i veri protagonisti della resistenza sono i poveri, i popoli indigeni e afrodiscendenti, non i vescovi.
Dal documento finale emerge con chiarezza anche la necessità dell’inculturazione. Si parla di una vera e propria “conversione culturale”, che renda possibile un altro modo di vedere le cose.
Per la Chiesa, essere “cattolica” non equivale a omogeneizzare e romanizzare i popoli: è importante rispettare le loro espressioni del Vangelo, diverse e molteplici.
Gesù di Nazaret non era romano né parlava latino, ma il suo messaggio, che ha una valenza universale, ha trovato espressione anche in Italia.

Qual è il limite più rilevante da te riscontrato nel documento finale?
Ciò che non è stato adeguatamente espresso è il protagonismo delle donne. Questo, a mio avviso, è il punto debole, perché le donne, nonostante abbiano avuto una partecipazione significativa sia nel processo preparatorio sia nell’assemblea sinodale, non ricevono adeguato riconoscimento.
In Amazzonia, ancor più che in altre parti del mondo, sono loro che, giorno dopo giorno, organizzano e sostengono la vita delle comunità e della Chiesa.
Il ruolo delle donne nel contrastare la distruzione della Terra non viene esplicitato, come pure il fatto che sono loro ad essere maggiormente penalizzate dai grandi progetti e dal cambiamento climatico. Le conseguenze non sono le stesse nelle diverse regioni del Pianeta: sono quelle più povere ad essere anche le più penalizzate.
Nel documento finale del Sinodo non emerge la richiesta del diaconato femminile. Da notare che, nel percorso da noi vissuto, 9 circoli minori su 12 avevano chiesto il riconoscimento del diaconato delle donne, anche perché, semplicemente, è un servizio che già svolgono. Il Papa stesso, nel suo discorso conclusivo, ha riconosciuto che c’è bisogno di andare avanti e lavorare di più perché la voce delle donne sia ascoltata e il loro posto riconosciuto e valorizzato.
E non solo nella Chiesa cattolica: è la società in generale che è ancora molto patriarcale.

Continua...

Last modified on Venerdì, 27 Dicembre 2019 14:27

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