Martedì, 30 Giugno 2020 15:57

“Untori” e vittime

«Dagli all’untore!». Il grido d’allarme di manzoniana memoria della peste del Seicento sembra riecheggiare anche oggi, perché la paura del contagio pervade ogni popolo minacciato da epidemie e pandemie. È una questione di sopravvivenza. Ma chi sono “gli untori” del covid-19? E chi le vittime?

Il 10 aprile, Hannah Beech, con il titolo del suo articolo pubblicato sul New York Times, non usa mezze misure: “Il coronavirus si alimenta di un mondo di migranti”. E il sommario è ancor più esplicito: «I lavoratori migranti non sono soltanto vittime di covid-19, ma anche propagatori». La lista di esempi è lunga: il lockdown imposto per arginare il contagio ha lasciato molti di loro senza lavoro, improvvisamente. Che fare?

Meglio tornare a casa, come ha fatto Ko Zaw Win Tun, un giovane del Myanmar che lavorava in Thailandia. Raggiunto il suo villaggio dopo un rocambolesco viaggio su mezzi affollatissimi, presenta i primi sintomi della malattia.
Hannah Beech riconosce che all’inizio il virus si è diffuso rapidamente con turisti, esponenti della finanza e del commercio in viaggio d’affari e partecipanti a incontri e conferenze internazionali, ma poi il suo articolo si concentra sui 200 milioni di lavoratori migranti che attraversano i confini nazionali e sui 760 milioni che si muovono all’interno del proprio Paese. Un esercito di “pericolosi vettori del virus” che lo diffondono anche nei villaggi più sperduti: dalla Thailandia al Myanmar, dall’Iran all’Afghanistan, dalle grandi città alle zone rurali dell’India. E anche dal Nord al Sud Italia.

Dall’osanna al crucifige
Chi, fino a ieri, grazie alle sue laute rimesse era ammirato perché procurava sostentamento all’intera famiglia nel Paese d’origine, a causa del virus diventa “untore” a casa propria, e quando ritorna è meglio che stia a distanza. È successo.
Nelle Filippine, Paese con il 10% della popolazione che lavora all’estero, all’inizio di aprile ben oltre 500 persone avevano contratto il virus nel Paese ospite, dove dormitori affollati e ambienti di lavoro insalubri non garantivano alcuna protezione. Nei Paesi del Golfo, a causa dell’interruzione di molte attività, alcuni lavoratori filippini hanno subito addirittura la cancellazione del visto da parte del datore di lavoro. Il governo filippino prevede il rientro dall’estero, tra giugno e agosto 2020, di oltre 300.000 cittadini e cittadine. Per questa moltitudine la quarantena è obbligatoria, ma ridotta a 72 ore per chi risulti negativo al test: nelle strutture governative destinate all’isolamento, che includono anche navi e hotel precettati, non c’è più posto.

Il 9 giugno, il Paese registrava 22.992 casi accertati in patria e 5.400 all’estero, di cui circa 700 in Medio Oriente. Da notare, però, che tra i 22.432 lavoratori filippini rientrati prima del 22 maggio 2020 la Croce rossa riscontrava soltanto 464 infetti da coronavirus. Sono loro gli “untori”?

Diritti violati, anzi inesistenti
Il 13 aprile, ancora sul New York Times, Ben Hubbard racconta il calvario dei lavoratori stranieri nei Paesi del Golfo, di cui molti da Filippine, India e Pakistan. Il Qatar ne ha confinati decine di migliaia in un quartiere privo di adeguate condizioni igienico-sanitarie, in Kuwait si suggeriva di “gettarli” nel deserto, mentre in Arabia Saudita le aziende, appena sospese le attività, hanno lasciato le maestranze immigrate senza paga.
Le monarchie della regione non hanno mai brillato per rispetto dei diritti civili, ma la pandemia ha fatto ulteriormente degenerare la situazione. Il 5 aprile, il ministero della Salute dell’Arabia Saudita riportava che più del 50% dei 4.000 casi di covid-19 era stato registrato presso la popolazione straniera. Erano loro gli “untori”? O, più semplicemente, erano persone maggiormente esposte al coronavirus per le condizioni di lavoro e di vita che dovevano sopportare?

Un lavoratore dell’industria petrolifera proveniente dal Kenya preferiva ironizzare: «In un alloggio che ospita 450 persone e ha soltanto 6 bagni, lavarsi spesso le mani è pressoché impossibile!».
Settori portanti, come quello energetico (petrolio e gas) e delle costruzioni, non hanno subìto interruzioni, come pure il lavoro domestico di 64 ore a settimana e altri servizi essenziali. Nel 2019 l’88% della popolazione degli Emirati Arabi Uniti era costituito da migranti internazionali. Da decenni i lavoratori e le lavoratrici provenienti da Asia e Africa sono la colonna portante delle economie della Penisola arabica: sopportano continui soprusi pur di guadagnare meglio che nei Paesi di origine, ma ora sono rimasti senza diritti e senza guadagno. Disperati.
E che ne è di coloro che dipendono dalle loro rimesse?

Tracollo a catena
L’Organizzazione internazionale del lavoro stima che nel primo mese della pandemia il settore dell’economia informale (agricoltura, piccoli negozi, hotel e ristoranti, servizi per il turismo…), in cui molti migranti lavorano, abbia registrato un crollo dell’81% in Africa e America e del 70% in Europa e Asia centrale.

Continua...

Last modified on Martedì, 30 Giugno 2020 16:06

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