L’emozione è stata fortissima, ma non condivisa da tutti. Amici e familiari, preoccupati, cercavano di farmi desistere. Dopo un mese di riflessione, ho deciso di seguire il cuore. E così, una mattina di maggio, alle quattro, io e la mia valigia eravamo pronte a partire.
Il confine, la fede, il deserto
L’arrivo a Tel Aviv fu un impatto forte: militari ovunque, controlli serrati, un senso costante di tensione. A Gerusalemme, mi attendevano suor Cecilia Sierra (Cecy) e suor Lourdes García (Lula). Con loro ho attraversato il muro che separa Israele dalla Palestina, varcando il mio primo check-point: un confine tangibile, drammatico e irreale.
La base era ad Al-Eizariya, un villaggio palestinese che nei Vangeli è chiamato Betania. Ancora oggi conserva la tomba di Lazzaro, resuscitato da Gesù. Ogni mattina raggiungevamo i villaggi beduini nel Deserto della Giudea, dove le suore svolgono un lavoro quotidiano di presenza, ascolto e supporto. Un’attività silenziosa, fatta di piccoli gesti che costruiscono relazioni autentiche. Ho compreso il significato del “mettersi a servizio” dell’altro e dell’altra.
Le giornate erano spesso intervallate da visite ai luoghi sacri della Terra Santa. Grazie alla guida delle sorelle, ho ritrovato la mia spiritualità, un equilibrio che credevo perduto, ma che si è fatto spazio in me, portando pace in un Paese ferito dalla guerra.
Il linguaggio degli sguardi
Tra i momenti più significativi, gli incontri con le donne beduine, un mondo così diverso dal mio! Non parlavamo la stessa lingua, ma bastavano gli sguardi, i sorrisi, i gesti. In quell’umanità semplice, mi sono sentita accolta. Ho imparato il valore del silenzio, dell’essenziale, del rispetto.
Per immergermi davvero in quella realtà, ho capito che dovevo ogni giorno fare un passo indietro: lasciare da parte certezze e convinzioni per entrare in contatto con loro e con una parte profonda di me.
Un rientro che è solo un passaggio
Al ritorno, ho cercato di rimettere ordine dentro di me, ma la missione non era finita. Poco dopo, suor Cecy mi ha proposto di imparare a fare il sapone, per poi insegnarlo alle donne beduine. Fratello Alberto Lamana, Comboniano, mi ha messo in contatto con suor Mayra a Roma. Per mesi, ogni venerdì pomeriggio, ho imparato l’arte delle saponette artigianali. Mi sentivo utile e desideravo tornare presto per portare qualcosa ai bambini e alle bambine.
Così ho scritto una favola sull’amicizia tra un cammello e un asinello. Da quel racconto è nato uno spettacolo itinerante, con una lettura in lingua araba, musiche composte appositamente, animato da sagome e tulle. Un piccolo dono per regalare uno spazio di immaginazione e meraviglia ai bambini e alle bambine dei villaggi beduini.
Il ritorno, il legame, la continuità
A febbraio 2025 sono tornata in Palestina, e ciò che ho vissuto in quel secondo viaggio è qualcosa che sfugge alle parole.
La verità è che la missione non si è mai interrotta. È diventata parte della mia quotidianità, del mio nuovo modo di stare al mondo. Con le suore, con le donne, con bambini e bambine si è creato un legame che non ha bisogno di spiegazioni: mi sento parte di quella missione.
Sento che siamo connessi, e che ciò che apprendo in termini di umanità quando sono in missione è forgiante: mi insegna a guardare l’altro e l’altra con rispetto; ad attribuirgli valore.
Ed è questo il seme che porto con me, ogni giorno, ovunque io sia.